Una vedova allegra ma non troppo. Vivace e indomita, appassionata e brutale, inquieta e indefessa, soprattutto mai rassegnata, nonostante i settanta anni, la vedovanza improvvisa, i tempi infelici e un passato (un figlio perduto in guerra) pesante sulle spalle. Lady Henderson fu tutto questo e molto di più.
Nell’Inghilterra a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, mentre il mondo precipitava nel conflitto mondiale e, prima ancora, nelle follie del fascismo e del nazismo, la signora, che aveva passato una vita in India all’ombra del marito, facoltoso uomo d’affari, e che divenuta vedova non poteva accontentarsi di una quotidianità consumata tra shopping, ricami e solidarietà salottiera, si inventò un teatro. Letteralmente. Comprò nel West End londinese un teatro ormai in abbandono, cominciò a mettere in scena spettacoli non stop e a spogliare le sue ballerine, beffando fantasiosamente la censura (lasciando immobili le ragazze come dei tableaux vivants) e, al grido di “noi non chiudiamo mai”, regalò un rifugio e una parentesi di oblio al paese in guerra e alla Londra bombardata.
Non fece tutto da sola, ovviamente, né avrebbe potuto farlo senza l’intraprendente e fantasioso Vivian Van Damm che del suo teatro fu, da subito, il direttore e di lei l’amico più fidato, amato-odiato sin dall’inizio, come nelle migliori tradizioni di commedia sofisticata.
Già perché anche questo è Lady Henderson presenta, piccolo gioiello firmato da quel grande sempre in divenire che è Stephen Frears e sceneggiato magnificamente da Martin Sherman.
Duro e ironico, esilarante e malinconico, leggero e drammatico, teso e leggiadro insieme, capace di condurti per mano dall’inconsueto prologo alla nota tragedia come attraverso un viaggio nell’animo umano ma un viaggio consumato su una mongolfiera, da cui tutto si può osservare dall’alto ma mai troppo a distanza, tutto è soggetto a sbalzi, tutto atterra bruscamente sull’orrore della realtà eppure, nel contempo, tutto dolcemente si abbraccia e nel sorriso si lascia contenere come se la vita non fosse che una tragedia da vivere come una commedia.
La sceneggiatura è un libro aperto, scritto dosando ingredienti, umori ma anche virgole e punti, senza nulla tralasciare dei battiti del cuore e dello stridore della Storia, appena un passo più in là; la regia sapiente, puntuale e discreta; la ricostruzione d’epoca impeccabile e gli attori, al meglio di sé, fanno tutto il resto.
Una Judi Dench, che di rado vediamo in ruoli da protagonista, qui sontuosa, trattenuta ma anche traboccante, dalla vitalità contagiosa, e un Bob Hoskins, che si mostra persino nudo (come tutti gli altri, del resto, Dench esclusa), ostinato e roccioso ma solo per difesa. Entrambi si guardano capendo tutto l’uno dell’altro, si scrutano dispettosi dall’inizio alla fine, si amano, ciascuno a suo modo, si cercano anche quando sono a un passo l’uno dall’altro e senza saperlo, si evitano a tratti come accade in ogni coppia d’amore o d’affari che si rispetti e, infine, si specchiano nella reciproca diversità, nella simmetria della compensazione nella chiusa (non originalissima ma efficace) sul tetto del teatro e sullo sfondo di un tramonto rosso fuoco di luce e di spari steso su una città a perdita d’occhio.
Come la vita, tutta da combattere e inventare, giorno per giorno, guerra per guerra, minuto per minuto: Frears ce lo ha detto ogni volta, qui devia non di poco, prende la tangente del più scontato (ma solo in apparenza) affresco corale ma ce lo dice ancora. E non fa una piega.
Nelle sale dal 5 gennaio distribuito dalla Bim.
Note:
* Ispirato ad una storia vera nella Londra di fine anni 30.
* Il film è candidato a tre Golden Globe. Miglior film, Migliore attrice, Miglior attore.