Si comincia coi bossoli di una pallottola che cadono su una scrivania. L’arma è quella appena data in dotazione, per autodifesa, al nuovo giudice istruttore della Guardia rivoluzionaria a Teheran. Si chiama Iman (l’impassibile Misagh Zare) ha moglie (la meravigliosa ed intensa Soheila Golestani) e due figlie adolescenti che piuttosto che alla propaganda televisiva credono alle immagini che arrivano dagli smartphone e ai racconti delle loro coetanee.
Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes e in corsa ai prossimi Oscar come miglior film internazionale, Il seme del fico sacro dell’iraniano Mohammad Rasoulof (fuggito misteriosamente dopo la confisca del passaporto nel 2017 e costretto all’esilio forzato dopo la condanna in patria a 8 anni di carcere in patria per complotto contro la sicurezza nazionale attraverso i suoi film e i suoi documentari) è un viaggio lungo quasi tre ore (2h48’) tra realtà e biografia, verità e finzione che miscela sapientemente (almeno fino a tre quarti) un interno familiare e l’orrore che si nasconde dietro le tende chiuse di quella casa a dimensione femminile.
Con le immagini riprese dai cellulari (recuperate dal regista sui social) che documentano le violenze e la repressione della teocrazia iraniana dopo la morte di Mahsa Amini nel 2022. Accusata dalla polizia religiosa di Teheran di mancata osservanza dell’hijab e condotta presso una stazione di polizia, morirà dopo tre giorni di coma suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica.
E’ in questo clima che opera il nuovo Giudice, chiamato a sostenere 300 casi al giorno e a firmare condanne a morte sotto l’input del Pubblico Ministero. Con la moglie Najmeh che sogna una nuova casa e un nuovo stile di vita e un’amica della figlia maggiore, compagna di università, pestata a sangue e manifesto vivente della condizione politica iraniana (la durissima e commovente sequenza dell’estrazione delle pallottole di gomma in faccia vale il film).
Mentre quel giudice, inizialmente persino animato da buone intenzioni, finirà nel vortice della paranoia dopo la scomparsa della pistola da un cassetto di casa. Chi l’ha presa e perché?
Tra mani sporche di sangue e la cura del corpo (magnifica la sequenza in slow motion della moglie che cura amorevolmente barba e capelli al marito), cartonati nei corridoi nel potere e interrogatori come sedute di psicoterapia, ispezioni e sospetti (Questo non è un tribunale, è casa tua dice la moglie al marito) il film di Rasoulof (Il male non esiste, Orso d’Oro a Berlino 2020) è implacabile, dettagliato e militante, con una tensione interna ad ogni inquadratura che monta lavorando sui dettagli e gli sguardi.
E così mentre c’è chi sogna smalto e capelli blu in nome del movimento Jina (Donna, vita e libertà) c’è chi afferma che il mondo è cambiato ma non le leggi di Dio in un confronto dialettico nel quale anche un uomo che si chiama Iman rischia di perdere la Fede.
Peccato che l’ultima parte, quella nella quale il Giudice decide di segregare moglie e figlie nella vecchia casa natale arroccata nel deserto centrale iraniano, diventi sin troppo simbolica (quella mano che emerge dalla sabbia…) e piena di azione (da dimenticare l’inseguimento in auto degli oppositori).
Col confronto quasi western tra tradizione e modernità incarnato in quel santuario in rovina e che disperde in parte l’integrità, morale e cinematografica, di un film comunque da non perdere per valore politico e civile.
In sala dal 20 febbraio distribuito da Lucky Red