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sabato 1 febbraio 2025
di Claudio Fontanini
THE BRUTALIST
Il fluviale e ambizioso film di Corbet con un grande Adrien Brody
L’altra faccia del sogno americano in un film ambizioso e smisurato, la storia di un genio senza patria in un epopea post bellica girata in Vista Vision 70 mm. Leone d’argento per la migliore regia all’ultima Mostra di Venezia e vincitore di 3 Golden Globe (Miglior film drammatico, regia e attore in un film drammatico) The Brutalist di Brady Corbet è uno dei favoriti ai prossimi Oscar con 10 candidature

Durata fiume (3 h 35’ minuti con un intervallo di 15’ con foto d’epoca e countdown sullo schermo per la ripresa), un piano sequenza iniziale da antologia (con quella Statua della Libertà rovesciata in soggettiva a farsi manifesto iniziale del viaggio del protagonista) e la lentezza di uno stile morbido ed avvolgente (lode alle musiche struggenti di Daniel Blumberg) per raccontare l’odissea dell’ebreo ungherese Laszlo Toth (uno straordinario Adrien Brody), architetto della Bauhaus scampato a Buchenwald ed emigrato negli Stati Uniti con moglie (Felicity Jones) e giovane nipote lontane dopo la Shoah e in attesa di raggiungerlo. 

Sarà il cugino americano Attila (Alessandro Nivola), che nel frattempo ha una moglie cattolica e un nuovo nome americano (Miller), ad ospitarlo provvisoriamente nella sua casa in Pennsylvania e ad offrirgli un lavoro come progettista del suo mobilificio. 
Fino all’incontro col ricchissimo mecenate Harrison Lee Van Buren (Guy Pierce) che dopo lo scontro iniziale gli offrirà la commissione di uno smisurato progetto architettonico in onore della madre appena morta. 

Diviso in due parti (L’enigma dell’arrivo 1947/1952, Il nocciolo duro della bellezza 1953/1960 con un ouverture e un epilogo veneziano alla prima Biennale architettonica del 1980) The Brutalist, il terzo film di Corbet dopo L’infanzia di un capo e Vox Lux, gioca sull’ambivalenza del titolo (riferito sia alla corrente architettonica nata nel secondo dopoguerra che allo stupro operato dal capitalismo sul talento e sulla bellezza) in un’opera monumentale pensata e realizzata in 10 anni e che però, alla fine, sembra la classica montagna che partorisce il topolino. 

Tra citazioni di Goethe (Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo) e marmi di Carrara (Gli Italiani? Sono gli ispanici d’Europa, ecco perché non faccio affari con loro dice il magnate in attesa di incontrare uno scalpellino amico di Laszlo all’inizio della parte più sconclusionata e deludente del film), plastici e malattie (la moglie di Laszlo arriva in carrozzina per osteoporosi da denutrizione mentre lui si fa di oppio per una frattura al naso), visioni e giocattoli sul letto (Ti ricordavo bambina… dice Laszlo alla moglie con la quale non riesce a fare più sesso), penny gettati in faccia a tavola e investimenti privati per raggiungere un sogno impossibile (Laszlo, pur di concludere il progetto faraonico, mette in gioco i suoi compensi), The Brutalist- sceneggiato da Corbet con la moglie Mona Fastvolt-  finisce per sposare la tesi (Questo posto è marcio! dirà la moglie di Laszlo). 

Con quel pistolotto finale della nipote che celebra l’arte di trascendere il tempo e lo spazio inneggiando alla meta e non al viaggio che sembra un inutile bignamino al confronto della magniloquenza e della grandezza visiva vista in precedenza. 

Così, alla fine, il film di Corbet- ispirato  da Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War di Jean-Louis Cohen- si ammira ma non si ama fino in fondo. Con un altro architetto protagonista dopo Megalopolis di Coppola e un occhio all’inarrivabile Petroliere di Paul Thomas Anderson, forse il vero modello nascosto del film di Corbet.   


In sala dal 6 febbraio distribuito da Universal Pictures


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http://www.universalpictures.it

 
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