Una famiglia, una compagnia teatrale all’antica, la natura umana in scena. Il Grande Carro è una costellazione ma anche un teatro di marionette. Quello gestito da un padre (Aurelien Recoing) e tre figli (Louis, Esther e Lena Garrel) che portano avanti tradizioni e artigianato nel nome di una manualità che fa a pugni con tecnologia e nuovi spettacoli.
Presentato in concorso alla 73ma Berlinale dove ha vinto l’Orso d’argento per la miglior regia, Il grande carro di Philippe Garrel è un film di incanti e cambiamenti, eredità culturali e apparizioni.
Intimo e sommesso, il film di famiglia del 75enne regista francese- che riunisce per l’occasione davanti alla macchina da presa i suoi tre figli diventati negli anni attori- è un’ode alla comunità che profuma di autobiografia (il padre di Garrel, prima di diventare attore era un burattinaio nella compagnia di Gaston Baty) e dipinge con acutezza sentimenti e ideali.
Immaginario e documentato, Il grande carro porta in scena la disgregazione di una compagnia che si fa metafora di un mondo liquido e virtuale. Tra bambini incantati e proteste politiche a seno nudo, nonne apostate con l’Alzheimer e un girotondo amoroso che mischia carte e sentimenti (a dare una mano alla compagnia arriva Pieter, pittore in crisi d’identità), il film di Garrel somiglia a quel Pulcinella che sfida la morte rappresentato dai burattinai. Una battaglia di resistenza, intellettuale e artistica, combattuta nel nome dell’Arte.
In sala dal 14 settembre distribuito da Altre Storie con Minerva Pictures