L’eterna lotta tra bene e male va in scena in Abbi fede, opera seconda di Giorgio Pasotti dopo il delicato esordio del 2014 con Io, Arlecchino. Basato su Le mele di Adamo, l’originale commedia nera danese di Anders Thomas Jensen del 2006, il film racconta il lento avvicinamento tra un prete che all’apparenza vive tra le nuvole negando l’evidenza (Pasotti) e un neofascista in riabilitazione (Claudio Amendola) capitato controvoglia in quella chiesetta sperduta nel nulla tra i boschi dell’Alto Adige.
Favola grottesca sulla riabilitazione alla vita, il film di Pasotti (scritto con Federico Baccomo) immerge i suoi personaggi in una comunità montana che si fa, visivamente ed emotivamente, clima ed atmosfera di un mondo a parte. Tra ex sciatori alcolizzati e fondamentalisti arabi che rapinano pompe di benzina, quel parroco che gira in calzoncini corti e parla con la r moscia accantona il suo doloroso passato per favorire l’arte dell’incontro e dell’ascolto in una contaminazione di prospettive che Pasotti fotografa al meglio dal punto di vista stilistico, meno da quello della tenuta dei personaggi.
Con quel romano violento e intransigente in trasferta che appende al muro della sua stanzetta la fotografia del Duce mentre sogna di preparare uno strudel alle mele per i suoi nuovi compagni. Dio e Satana, testate in faccia e biscottini da dividere equamente, corvi e pistole, sindromi di Ravashi e una Bibbia che si apre sempre sulla stessa pagina (quella del libro di Giobbe). In attesa di un miracolo che forse si prepara e non si attende.
Più attento al colore dell’insieme che all’analisi del nucleo centrale narrativo, Pasotti regista si perde però dietro accentuate caratterizzazioni esteriori (il suo pretino candido sembra una sorta di Forrest Gump montanaro mentre Amendola passa dalla croce celtica sulla testa al parrucchino finale alla stazione) che peraltro risultano assai schematiche più che divertenti.
Come se ogni personaggio non vivesse di vita propria (da dimenticare il pur bravo Roberto Nobile nei panni del dottore dell’ospedale) e Pasotti, peraltro attore sempre sensibile e appartato, sentisse l’urgenza di evidenziarne tic e manie che però rischiano di soffocarne l’autenticità. L’Italia non è la Danimarca e forse distaccarsi dall’originale (sceneggiatura pressoché identica) avrebbe giovato. Occasione mancata e d’altro canto si sa, l’opera seconda è sempre la più difficile da superare. Come diceva Troisi, meglio ricominciare da tre.
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