Dopo anni di controversie e abbandoni (il progetto iniziale è datato 2010 e tre anni dopo Sacha Baron Cohen, scelto per interpretare il leader del celebre gruppo rock, ha deciso di defilarsi) vede finalmente la luce cinematografica il film sui Queen e su Freddy Mercury.
Diretto da Bryan Singer (licenziato dalla produzione nel dicembre 2017 per l’assenza ingiustificata durante una settimana di riprese e sostituito senza essere accreditato da Dexter Fletcher per la fine delle riprese e la post produzione) Bohemian Rhapsody segue i primi 15 anni della band, dal 1970 all’85, l’anno della reunion e del mitico Live Aid per l’Africa allo stadio Wembley di Londra.
Nato a Zanzibar da famiglia di origini indiane parsi e fede zoroastriana, il Freddy Mercury di Singer (sullo schermo un ottimo Rami Malek da adulto e un caricaturale Adam Rauf da adolescente) è un uomo introverso e sfaccettato che nasconde segreti e trova sul palcoscenico la sua vera natura (In scena non ho paura di niente e non potrei stonare neanche volessi). Ed ecco la voglia di musica e quella di formare una nuova famiglia poco tradizionale manifestarsi in tenera età. Con la prima audizione in un parcheggio da parte degli Smile, il gruppo di studenti che seguiva e che, appena orfani del loro cantante, lo precetteranno per l’avventura della vita.
Insieme al chitarrista Brian May (Gwilym Lee),al bassista John Deacon (Joseph Mazzello) e al batterista Roger Taylor (Ben Hardy) ecco la nuova formazione in cerca di gloria e pronta a sfidare regole e convenzioni. Con quel leader ingombrante e ancora indeciso sessualmente (nei panni di Mary Austin, la compagna iniziale di Mercury che negli anni diventerà la sua migliore amica, c’è Lucy Boynton) che dopo aver cambiato nome stravolgerà testi e strategie di quel gruppo di quattro disadattati mal assortiti che suona per altri disadattati.
Venduto lo scalcinato furgone per l’affitto dello studio di registrazione del primo album, ecco spianata la strada del successo dopo l’incontro con John Reid (Aidan Gillen) il manager di Elton John. Abiti femminili scelti come seconda pelle, dentoni in vista (Sono nato con quattro incisivi in più…dice Mercury che da giovane e senza baffi sembra una via di mezzo tra Buggs Bunny e Ronaldinho) e allergico alle formule del successo, il protagonista di Bohemian Rhapsody è l’unica star incontrastata.
Sfocati e di contorno gli altri componenti del gruppo e poco illuminato il contesto sociale e musicale dell’epoca, il film di Singer si concentra sulla psicologia e la voce (quella musicale e quella del cuore) di un artista che voleva mischiare i generi e superare i confini del prevedibile. Tra tournèe trionfali e gatti da accudire, brindisi telefonici a distanza e ricatti, feste alternative (Siamo una rock band non i Village People protesta Brian May che abbandona la serata col resto del gruppo), liti (Qui c’è posto per una sola regina isterica dice Freddy Mercury al resto della band che discute animatamente), gelosie e tradimenti (la Cbs Records offre 4 milioni di dollari per un doppio disco da solista) la parabola di Mercury che tocca l’apice nel concerto conclusivo, è un vero e proprio inno alla vita che profuma di addio (il cantante morirà a 45 anni nel ’91 stroncato dall’Aids).
Enfatico, didascalico e sin troppo puritano nonostante l’animo selvaggio, ribelle e irriverente del suo protagonista, il film, sceneggiato da Anthony McCarten (La teoria del tutto, L’ora più buia) dà il meglio nella genesi dei pezzi storici (Scaramouche, Galileo, Bismilah ma di cosa parla Bohemian rhapsody? si chiede sconcertato il produttore che non vuole promuovere quel poema epico di 6’) e nelle parti musicali dove Rami Malek (aiutato dalla voce di Marc Martel, cantante del progetto Queen Extravaganza e vero e proprio sosia vocale di Mercury) s’immedesima alla perfezione tanto da farci credere di essere tra gli spettatori del mitico concerto finale.
In sala dal 29 novembre distribuito da Twenthy Century Fox