Rinnovamento strutturale della logistica (leggi: chiusura della voragine davanti al Casino, e riqualificazione della sala Darsena), progetti di lungo respiro che spaziano dalla formazione di nuovi filmaker (Biennale College Cinema) all’impulso del mercato (Venice Film Market), forte presenza femminile (venti donne registe su 60 film), abolizione della sezione Controcampo (ridotta a una "riserva indiana") e la scommessa del Web: evento che porterà i film della sezione Orizzonti in streaming, fruibili on line in diretta con le proiezioni veneziane per chi vorrà prenotare un posto sul divano di casa sua e godersi lo spettacolo in tv. Forse è proprio questa la vera notizia di questa 69.ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, presentata oggi a Roma dal presidente della Biennale Paolo Baratta e dal direttore del festival, Alberto Barbera (Foto n. 2).
Mostra più che qualificata, a giudicare dal programma, e in qualche modo non esente da rischi, il che conferma la naturale vocazione dei festival d’arte come Venezia. Mostra che affianca nomi noti come Marco Bellocchio e Takeshi Kitano, Francesca Comencini e Terrence Malick, Kim Ki Duk e Brian De Palma in gara per il Leone d’Oro contro cineasti meno noti, anche se già affermati. Un programma ricco di titoli (dei 18 in gara per il Leone, ne sono stati annunciati 17: l’ultimo, in serbo come ‘sorpresa’, verrà speso tra qualche giorno) e di nomi, di star sul red carpet e di ‘contenuti’, che lascia ben sperare per la prima edizione della Mostra post Muller e, soprattutto, per il quadriennio che verrà.
“Non sarà un festival radicalmente sperimentale, ci saranno tanti film americani e francesi – tiene a dire Barbera, soddisfatto del lavoro di selezione fatto col suo team, anche se – a malincuore ho dovuto dire di no a qualcuno. Confesso che nelle ultime settimane ho ammirato e invidiato il collega direttore del festival di Toronto che può prendere 350 film, cioè accettarli quasi tutti, dovendo solo decidere in che sezione piazzarli. Avevo dimenticato quando fosse drammatico telefonare ai registi dicendo ‘il tuo film non lo prendo”… temo di aver perso qualche amico. Gli autori si aspettano di essere ai festival come se fosse un diritto legittimo: dire no a un’opera non significa però che il film sia brutto” scherza, mica poi tanto, Barbera che, a parte ricordare le settimane passate di scelte impervie e sofferte, rinnova l’invito pending fatto al regista iraniano Jafar Panahi: “tenergli un posto nella giuria è una richiesta implicita fatta all’Iran di revocare una condanna ingiusta: la sua sedia c’è, è lì, vicina alle altre nove. Se Panahi non verrà, resterà vuota”.
Se è vero che chi ben comincia è a metà dell’opera, Barbera lo fa con garbo. E ironia: “Formula light e nessun film cinese” cioè quelli che piacevano a Marco Muller. Battute a parte, la Mostra si presenta con un programma snello: “non superiamo i 60 film: un numero sopportabile e plausibile. Come detto, c’è un gran numero di registe ma non è voluto. Di solito, quando vedo un film non so chi lo dirige, scelgo in base alla qualità. Una forte presenza femminile è un segnale di cambiamento positivo, la creatività della donna ha sfondato anche nel cinema". Venezia, insomma prende atto. Non solo.
Quest’anno Venezia si concede una doppia apertura e una gran chiusura: il 29 agosto prima del film di Mira Nair, The Reluctant Fundamentalist, con Kiefer Sutherland e Kate Hudson, toccherà al docufilm musicale firmato Jonathan Demme Enzo Avitabile the Music Live (Fuori concorso), sull’eclettico musicista partenopeo. L’8 settembre, finale in bellezza col film francese L’homme qui rit di Jean Pierre Améris, trasposizione del romanzo di Victor Hugo con protagonisti Gerard Depardieu e Emmanuelle Seigner. In mezzo titoli come Pieta di Kim Ki-duk, Sinapupunan di Brillante Mendoza, Paradies: Faith di Ulrich Seidl, Love is All You Need di Susanne Bier, Lullaby to my Father di Amos Gitai, The company you keep di Robert Redford, e Bad 25 documentario di Spike Lee omaggio al genetliaco di Bad di Michael Jackson.
E se integralismo e crisi sono il leit motiv di quasi tutte le opere del festival (“l’economia in crisi crea ripercussioni nei rapporti, nel sociale e nei valori” riflette Barbera) in numeri è il 18 che torna a ripetizione, come un mantra. Diciotto sono i film in concorso, un po’ di più per la sezione fuori concorso (15 lungometraggi e 9 documentari, ndr) 18 sono le opere della sezione film restaurati, idem per le opere di Orizzonti, sezione a cui il direttore tiene tantissimo “perché nel 2000 ebbi l’idea di renderla competitiva. All’epoca tutti pensarono che fosse una follia, mentre ora la formula è copiata in ogni festival”. Tredici, invece, è il numero di milioni di euro spesi per una kermesse foraggiata per circa 7 mln dal MiBaC e per il resto da risparmi della Biennale e dalla vendita dei biglietti.
Ma veniamo alle star. Sul red carpet affollato stazioneranno Ben Affleck e Javier Bardem, Pierce Brosnan e Zac Efron, James Franco e John Malkovich, Nick Nolte e Dennis Quaid, Stanley Tucci e Toni Servillo, Jeanne Moreau e Kate Hudson, Rachel MacAdams e Isabelle Huppert, Noomi Rapace e Susan Sarandon, Kristine Scott Thomas e Selena Gomez. Per non parlare del decano Manoel De Oliveira, ultra centenario, appena uscito dall’ospedale e pronto, dopo il passaggio in laguna per il suo O gebo e a Sombra con Michael Lonsdale e Claudia Cardinale, a tornare al lavoro su un nuovo set. Tre gli italiani in gara per la vittoria, oltre ai già annunciati Marco Bellocchio per Bella addormentata e Daniele Ciprì con E’ stato il figlio, spunta Francesca Comencini e il suo Un giorno speciale interpretato da Filippo Scicchitano e Giulia Valentini.
Niente male, dunque, per una Mostra che riparte da Barbera con 50 film presentati in prima mondiale (“lo dico perché lo fanno tutti e se non lo facessimo saremmo delle mosche bianche”) tranne l’horror giapponese Shokuzai, di Kiyoshi Kurosawa, lungo 5 ore e nato come serial tv ora trasformato in film per il cinema, che nulla avrà da invidiare al Festival Internazionale del Film di Roma, anzi. “La concorrenza forte è quella costituita da tutti i festival – spiega Baratta – l’arte cinematografica è sia musa sia industria, con i ‘conti’ a condizionare le scelte, ma il fatto di aver posticipato l’inizio della kermesse romana è un gesto che riduce il senso di frustrazione. Altrimenti sarebbe stato urtante. Se vogliamo far vincere l’Italia dobbiamo smettere con lo sport nazionale, ovvero prenderci a cazzotti”.
Detto questo “auguriamo al Festival di Roma di trovare una collocazione specifica”. Quanto alle recenti polemiche legate alla ristrutturazione e/o chiusura di Cinecittà, presidente e direttore concordano: “Seguiamo con attenzione la vicenda e ci auguriamo che la soluzione sia rispettosa delle professionalità e del lavoro” dice Baratta. Ribatte Barbera: “Cinecittà è un luogo mitico, prima che fisico. Siamo tutti preoccupati che ciò che gli Studios rappresentano venga cancellato o cambiato”. Insomma, lunga vita al cinema.