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sabato 27 novembre 2010
di José de Arcangelo
IL MIO NOME E’ KHAN
Odierne peripezie di un uomo semplice, indiano e musulmano, nell’America spaventata dal terrorismo
Dopo il passaggio in anteprima al quinto Festival Internazionale del Film di Roma, approda in sala il primo film di Bollywood girato a Hollywood, un dramma politically correct (anche troppo) ed una grande storia d’amore, proprio come quelle che piacciono al pubblico americano - non solo - e che lo stesso cinema statunitense ama fare. Non è un caso se ad un certo punto l’opera riporta in mente ‘il piccolo grande (anti)eroe’ di “Forrest Gump” e, forse, in modo ancora più ammiccante e riuscito. “E’ una storia d’amore epica, dice il regista Karan Johar

Dopo il passaggio in anteprima al quinto Festival Internazionale del Film di Roma, approda in sala il primo film di Bollywood girato a Hollywood, un dramma politically correct (anche troppo) ed  una grande storia d’amore, proprio come quelle che piacciono al pubblico americano - non solo - e che lo stesso cinema statunitense ama fare. Non è un caso se ad un certo punto l’opera riporta in mente ‘il piccolo grande (anti)eroe’ di Forrest Gump e, forse, in modo ancora più ammiccante e riuscito.
E’ una storia d’amore epica - dice il regista Karan Johar - tra due persone che hanno un’unica visione del mondo”. Ma è anche la vicenda di un personaggio eccezionale, perché narra un’epopea drammatica nell’America del dopo 11 settembre di cui è protagonista Rizvan Khan, stimato indiano musulmano affetto dalla sindrome di Asperger (disturbo pervasivo dello sviluppo, da alcuni considerata una forma lieve di autismo) che lo rende geniale in alcuni compiti e materie, ma lo spinge a prendere alla lettera quanto dicono gli altri.

Un’odissea per un contemporaneo Candido indiano in un’America da terzo millennio alle prese con nuove paure ed intolleranze, nuova crisi e, addirittura, un nuovo presidente, ‘diverso’ anche lui.
Può sembrare strano affermare che abbiamo creato un film su un supereroe, aggiunge l’autore. Il nostro eroe, infatti, affetto da questa malattia, è un uomo candido il cui unico superpotere è l’umanità. Questa è stata per me l’esperienza più importante che ho vissuto girando il film. Vale a dire che, per essere un eroe, tutto ciò che occorre è la bontà di base dell’essere umano, che è qualcosa di veramente raro. In questo senso, potremmo quasi pensare che il protagonista venga da un altro mondo”.
Per queste ragioni la pellicola si rivela un melodramma - genere di cui gli indiani sono maestri - che prende e coinvolge lo spettatore, senza annoiarlo né infastidirlo, nonostante la durata di oltre due ore, trasformando l’eccezione in regola, dosando magistralmente il dolce e l’amaro, il sorriso ed il pianto, quindi le emozioni che sono l’anima del film.

Scritto da Shibani Bathija - che aveva collaborato con Johar nel precedente film - la pellicola vanta, appunto, una sceneggiatura di ferro, oltre che un ottimo narratore.
Cresciuto dall’amorevole madre, Rizvan (impagabile, il divo Shah Rukh Khan), quando resta solo deve raggiungere il fratello in America. Ma arrivato a San Francisco s’innamora perdutamente della bellissima Mandira (Kajol), madre single di religione induista, che sta vivendo la sua versione del sogno americano. Ma quando un atto di inaudita intolleranza e codardia smembra la loro famiglia, Khan decide d’intraprendere un difficile viaggio attraverso l’America contemporanea, luogo oscuro e complesso quanto il cuore umano. Un percorso che, inconsapevolmente, si trasforma nel più improbabile atto di sfida, ma anche di pace e compassione da parte di un uomo che con la sua disarmante autenticità riesce a toccare il cuore di (quasi) tutti coloro che incrocia sul suo cammino. Uno straniero, un personaggio singolare che, in nome della donna che ama, si presenterà al mondo ed al Presidente stesso dicendo semplicemente: “Il mio nome è Khan e non sono un terrorista”.

Un dramma pacifista costruito senza sbavature come un’ottima telenovela, contro ogni pregiudizio ed ogni ingiustizia; un inno all’amore e alla bontà, due sentimenti e due parole che l’uomo, purtroppo, dimentica di possedere e soprattutto di ‘adoperare’.
Il regista ha un grande mestiere e lo dimostra e la sua intenzione era quella di dare una prospettiva diversa a un mondo tuttora impelagato nelle incomprensioni e nell’intolleranza culturale che oggi imperano, non solo negli States ma anche in Occidente ed in Oriente.
Il punto di Karan come narratore - spiega la sceneggiatrice - è la sua capacità di vedere e capire i rapporti in un modo che sfugge alla maggioranza di noi. E’ dotato di una profonda intensità che gli permette di percepire le dinamiche relazionali. Se non conosce i soggetti che sta osservando, Karan trova una spiegazione costruendosi una storia su di essi. I suoi film rappresentano i rapporti interpersonali nel modo più semplice possibile, senza attenuare le complessità e le lotte che le coppie affrontano oggi sia a casa che fuori. Con Il mio nome è Khan volevamo allontanarci da quella che è la quintessenza dell’eroe dei film indiani per narrare la storia di un uomo e di una coppia, separati dal resto di noi per una ragione precisa”.
E’ questo il nucleo del film. E si vede.

Nelle sale dal 26 novembre distribuito da 20th Century Fox in 50 copie.


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