Un viaggio verso l’ignoto sulla rotta della memoria ma anche un western acquatico tra paesaggi desolati che indaga sul mistero della natura umana. Liberamente tratto dall’omonima graphic novel di Gipi in bianco e nero del 2016 (riedita per l’occasione da Coconino Press- Fandango in nuova veste editoriale in volume cartonato deluxe) e presentato fuori concorso al Festival di Taormina, La terra dei figli, visto in questo momento storico acquista fascino e spessore in un gioco di risonanze, umane e temporali, che rimette l’uomo al centro del villaggio.
Lo chiamano veleno. E’ quello che ha distrutto la civiltà facendo regredire il mondo ad una lotta per la sopravvivenza violenta e ferina (si veda il magnifico combattimento col cane che apre il film). Tra i pochissimi superstiti, un padre (un grande Paolo Pierobon) e un figlio 14enne (il giovane rapper di Fiumicino Leon de la Vallée- nome d’arte Leon Faun- al suo esordio da attore), con l’uomo che affida di notte ad un quaderno i suoi pensieri più reconditi mentre quel ragazzo, che non sa leggere né scrivere e non conosce nulla del mondo precedente, cercherà in quei segni indecifrabili la strada per una rinascita.
Perché il mondo non può essere solo quella palafitta in mezzo al lago (il film è girato attorno al delta del Po, in territorio emiliano e veneto) ma oltre la chiusa si nascondono pericoli mortali e, forse, la scoperta di un sentimento.
Storia post-apocalittica che invita a riflettere sul nostro presente malato (Cosa significa vivere? Qual è il valore di un ricordo?) il film di Claudio Cupellini (autore anche di soggetto e sceneggiatura con Filippo Gravino e Guido Iuculano) sfida il genere accantonando opportunamente effetti speciali e sensazionalismo per concentrarsi invece su affetti ed emozioni, magari da scoprire dietro le maschere del cinismo e della brutalità (si veda il bellissimo personaggio interpretato da Valerio Mastandrea, qui ad una delle sue prove più convincenti per adesione psicologica e mimetica corporea).
Con un diario a fare da guida (proprio come succedeva in Favolacce dei fratelli D’Innocenzo) in quello che alla fine è un romanzo di formazione giovanile (lode anche alla prigioniera Maria Roveran) tra carcasse di auto e sogni sott’acqua, cadaveri impiccati agli alberi e parole morte (Ti puoi fidare di me…), dolore che cura altro dolore e paura dell’amore (Ci fa essere deboli scrive il padre nel diario segreto).
In mezzo incontri ambigui ed uccisioni (magnifico Fabrizio Ferracane), streghe dal cuore d’oro (Valeria Golino) e fughe in barca in un film di padri e figli, prede e predatori. Teso, concentrato eppure intimo, il film di Cupellini (assente sul grande schermo dal 2015 con Alaska) fa della natura circostante un personaggio e utilizza le suggestive musiche di Motta a compendio di dialoghi asciutti e sguardi che dicono più di mille parole.
Inevitabile pensare a La strada di Corman McCarthy ma anche al recente Anna di Ammaniti (forse la migliore serie prodotta in Italia da qualche anno) per uno dei film italiani più problematici e convincenti della stagione.
Sulle cause e i motivi che portarono alla fine si sarebbero potuti scrivere interi capitoli nei libri di storia. Ma dopo la fine nessun libro venne scritto più, si legge nella didascalia iniziale che apre il film. Un monito al valore del racconto e all’arte del tramandare. Per l’umanità, forse, c’è ancora tempo.
In sala dal 1 luglio distribuito da 01