Le dinamiche della giustizia e del potere, uomini normali che assurgono al ruolo di eroi, i diritti e i doveri dell’informazione, l’identità nazionale. Per rimettere in scena a quasi 90 anni (li compirà il prossimo 31 maggio) i suoi consueti temi cinematografici, Clint Eastwood sceglie stavolta la storia vera di un gigante buono (lo straordinario Paul Walter Hauser di Tonya) che scoprirà sulla propria pelle cosa significhi essere colpevole fino a prova contraria.
Educato al rispetto delle autorità (Credo nella legge e nell’ordine) e aspirante poliziotto (il suo sogno è quello di indossare un giorno la divisa) Richard Jewell vive con l’anziana madre (Kathy Bates, alla prima volta con Eastwood) e lavora come addetto alla security in vista delle Olimpiadi estive di Atlanta 1996.
Sarà proprio quel timido e scrupoloso grassone a scovare per caso il 27 luglio- durante il concerto inaugurale al Centennial Park- una bomba nascosta dentro uno zainetto piazzato sotto una panchina. Ci saranno due morti e oltre 100 feriti e lui per pochi giorni diventerà una star mediatica (Ho solo fatto il mio dovere si schernisce davanti alle telecamere) salvo scoprire che in mancanza di colpevoli certi è proprio lui, per l’FBI, il primo e unico sospettato.
Perché tra protocolli e tecniche investigative il profilo di quell’uomo dal passato non proprio irreprensibile e la teoria dell’analisi comportamentale lo catapulteranno in una vera e propria caccia alle streghe dove più che la verità contano la velocità della notizia da diffondere e la tranquillità dell’opinione pubblica da preservare.
Mai accusato realmente ma perseguitato e incriminato nonostante una palese mancanza di prove a suo carico, Richard Jewell troverà assistenza e sostegno spirituale nelle fattezze di un avvocato anticonformista (Sam Rockwell) che gira in bermuda, lo crede innocente e lo spinge al contrattacco mediatico nonostante la sua reticenza (Non posso essere quello che non sono).
Tra scheletri nell’armadio e giornalisti d’assalto (Olivia Wilde), cimici nascoste e macchine della verità, incubi notturni e arsenali di armi in casa (Siamo in Georgia…si giustifica il protagonista), perquisizioni che virano in commedia e segretarie illuminate (Nina Arianda), Richard Jewell- sceneggiato da Billy Ray, coprodotto da Leonardo Di Caprio e girato negli stessi luoghi della vicenda raccontata- offre il consueto, gran cinema classico targato Eastwood.
Senza enfasi e retorica (si veda l’uso misuratissimo delle musiche di Arturo Sandoval) ma accurato e dettagliato a livello psicologico, il nuovo film del regista texano è uno dei più riusciti della sua ultima e non sempre impeccabile filmografia.
Con scene che lasciano il segno (la bomba che esplode all’improvviso come lo tsunami che arriva in Hereafter, l’interrogatorio proditorio dell’FBI mascherato da intervista, la struggente dichiarazione alla stampa della madre di Jewell in sottofinale che vale alla Bates- una che basta inquadrare per riscaldare la temperatura emotiva di un film- la candidatura a miglior attrice non protagonista ai prossimi Oscar), qualche colpo basso (la reporter disposta a tutto pur di finire in prima pagina che alla fine si commuove e piange lacrime di redenzione) e una cura del dettaglio e dell’inquadratura che fanno venire i brividi al solo pensiero di cosa avrebbero potuto fare- con un soggetto del genere- altri registi moderni e fracassoni.
Durerà 88 giorni quella guerra personale combattuta contro il governo degli Stati Uniti e i media (Le due forze più potenti al mondo dice a Jewell l’avvocato mettendolo in guardia) e le didascalie finale confermano amaramente l’assenza di vincitori. Perché di onestà si può anche morire.
In sala dal 16 gennaio distribuito da Warner Bros Italia