Un vecchio teatro in rovina, una compagnia di fantasmi che dà corpo all’infinito, un saggio sulla rappresentazione e un variopinto balletto di corpi e anime che popolano i sogni più veri del vero. Ci sono spettacoli che porteremo a lungo nella mente e nel cuore e I giganti della montagna di Luigi Pirandello messo in scena da Gabriele Lavia è uno di questi.
Testamento artistico, sintesi della sua poetica e dramma incompiuto dello scrittore siciliano (fu scritto nel 1933 e Pirandello morì nel 1936 dopo aver scritto solo due dei tre atti previsti), I giganti della montagna chiude magnificamente la trilogia pirandelliana di Lavia dopo Sei personaggi in cerca d’autore e L’uomo dal fiore in bocca…e non solo.
Sospesi tra favola e realtà e immersi nelle bellissime scene di Alessandro Camera si muovono i personaggi di questo disperato e coloratissimo delirio onirico che invoca l’autosufficienza dell’opera artistica nella finita infinità dello spazio mentale nella quale è rappresentata. Una compagnia di teatranti sperduti e disperati, guidata dalla contessa Ilse (una magnetica Federica Di Martino) arriva in una villa abbandonata dove vive Cotrone (immenso Lavia), uno strano mago che dà loro rifugio e che, dopo essersi dimesso da grand’uomo, dice di essersi fatto turco per il fallimento della poesia della cristianità.
Qui, dove non avere più niente significa avere tutto e dove niente è vero e vero può essere tutto, accadono i prodigi dell’Arte.
Non mi vorrete mica diventare ragionevoli dice Cotrone alla sua compagnia di invisibili mentre ascolta il racconto sventurato dell’altro gruppo di attori arrivato sin lì e senza più un teatro dove poter rappresentare La favola del figlio perduto.
Tra piccoli prodigi e fantocci che si animano, carezze che cancellano schiaffi ed eroici martiri, debiti sacri e miracoli a cui credere, le maschere della vita e del sogno si confondono in un gioco di specchi e di ruoli nel quale c’è in palio l’esistenza, o meglio, la sopravvivenza dell’Arte. Perché i Giganti bussano alla porta (finale da brivido) e ogni forma è la morte mentre la vita è vento, mare e fuoco.
L’eterna battaglia tra materiale e spirituale alla quale questo monumentale spettacolo regala balsamo purissimo contro l’imperante degrado culturale. Per non continuare ad essere apparizioni tra apparizioni.
Prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana, in coproduzione con il Teatro Stabile di Torino e il Teatro Biondo di Palermo, I giganti della montagna, in scena al Teatro Eliseo fino al 31 marzo, è un flusso emotivo di rara potenza che incanta ed ammalia trasportando lo spettatore, letteralmente, in un’altra dimensione. Merito di un cast superlativo (sono ben 23 gli attori in scena), di luci e costumi di grande effetto e dei vividi quadri coreografici di Adriana Borriello che danno ritmo e all’insieme.
Si vorrebbe non uscire mai dall’incanto di questa rappresentazione e da un mondo altro (l’unico realmente autentico) nel quale ci si sente finalmente a casa. Offeso, bistrattato e relegato in un cantuccio, il Teatro si prende la sua rivincita all’epoca dei social e del vuoto pneumatico delle intelligenze artificiali. Per andare oltre e guardarsi dentro nel più bello dei viaggi possibili, quello che si compie da fermi su una poltrona di velluto. Ovazione finale e applausi scroscianti per tutti. Da non perdere.