Stanco e disilluso, dalla vita e dal lavoro, per un vecchio commissario (Gabriele Lavia) è giunta l’ora della pensione. A Le Havre, in Normandia, mentre fuori diluvia, osserva i treni dalla finestra del suo ufficio poco illuminato urlando contro i passeggeri di vite in transito (Dove andate?).
Un mazzo di fiori rossi rubati dal giardino comunale per abbellire la sua scrivania, un termosifone rotto, un aiutante (Enrico Torzillo) che farà carriera (Hai il talento del tempo sbagliato, tipico del poliziotto) e intanto gli porta caffè caldi per la notte e l’improvviso arrivo di una donna (Federica Di Martino) a sconvolgere la sua ultima notte di servizio.
Dieci anni prima dice di aver ucciso il marito violento spingendolo giù dal balcone all’undicesimo piano ed ora vuole essere condannata ed arrestata facendo pace coi propri sensi di colpa. Il caso, catalogato all’epoca come un suicidio, reclama adesso una nuova verità (Cosa c’entra con la giustizia? domanda alla donna il commissario) mentre i minuti trascorrono inesorabili e tra due ore è in arrivo la prescrizione.
Giocato in tempo reale e in un atto unico, proprio per non spezzare la continuità narrativa, questo duello verbale e di coscienze si rivela un ring esistenziale tra due anime che sfidano (o hanno sfidato) la morte. Con quel commissario apparentemente sbrigativo e svagato (non ricorda le citazioni poetiche e filosofiche) e che si vede come un fantasma del passato (Io sono qui? chiede all’assistente incredulo) che farà di tutto per convincere quella donna a tornarsene a casa senza pene da scontare.
Tra schock emozionali e letti matrimoniali di chiodi, barattoli di sabbia colorata e scandagli emotivi, traiettorie del cuore e dossier accatastati di pratiche che trasudano vite nella bella scena di Alessandro Camera, Le leggi della gravità- in scena al Quirino fino al 14 novembre- mette in mostra, tra grottesco e metafisica, gli abissi esistenziali ed insondabili dell’animo umano.
Atto unico dall’omonimo romanzo di Jean Teulé del 2003 (dal quale nel 2013 è stato tratto un film, in Italia Arrestatemi, diretto da Jean Paul Lilienfeld) il nuovo lavoro teatrale di Lavia somiglia curiosamente, per atmosfere e senso, al bellissimo Una pura formalità di Giuseppe Tornatore, non a caso un film di impianto teatrale, con l’accoppiata Depardieu-Polanski.
Anche qui ecco allora un interrogatorio-confessione che si trasforma in un incubo ad occhi aperti che conduce alla dolorosa presa di coscienza del proprio fallimento. Proprio come la caduta in volo verso il suolo di quell’uomo assassinato che rivede la sua vita in pochi secondi prima della fine ineluttabile.
Ben interpretato ed efficace nella resa scenica, alla regia di Lavia manca però quell’ambiguità di fondo (la donna è una mitomane o no?) che avrebbe dovuto tenere alta la tensione e che invece si risolve troppo presto nella direzione di una verità negata.