Anatomia di un matrimonio. Scritto nel 1887 da August Strindberg e drammaturgia autobiografica (lo scrittore svedese ebbe tre mogli), Il padre è una tragedia classica eppure modernissima.
Portato in scena per la terza volta in carriera da Gabriele Lavia e nuova produzione della Fondazione Teatro della Toscana, il testo, stretto e incalzante nell’unità di tempo, luogo e azione, mette in scena una vera e propria resa dei conti uomo-donna.
Un passaggio di consegne nello scambio dei ruoli e nel precipitare di ogni certezza relativa al comando istituzionale all’interno della famiglia.
Ed ecco un Capitano di cavalleria autoritario e con lo sguardo rivolto al passato (studia meteoriti e scrive trattati di mineralogia) venire a scontrarsi con la moglie Laura (l’ottima Federica Di Martino) sull’educazione da impartire alla figlia Berta (Anna Chiara Colombo). Lui la vorrebbe al più presto lontana da casa per la sua indipendenza mentre la donna è del parere opposto.
Inizia da qui un lento e inesorabile calvario morale per la coppia, chiamata a mettere in gioco tattiche psicologiche e derive intellettuali al fine di ottenere il proprio scopo. Con l’uomo che sprofonda in un’angoscia devastante alla notizia, prospettatagli dalla moglie, che potrebbe non essere lui il padre della figlia.
Sì, perché a fine Ottocento la paternità certa non è provabile scientificamente e così quell’uomo in divisa e tutto d’un pezzo, capace di dare ordini ed essere temuto da soldati, finisce per ritrovarsi all’improvviso privato di ogni certezza.
Sono tempi straordinariamente strani (Viviamo in un pianeta di pazzi e buffoni dice Lavia e la battuta calza a pennello anche per i nostri giorni) e l’ossessione dei fatti, della Legge e delle regole di un contratto matrimoniale vengono meno nel nome di una crudele sopraffazione femminile che spinge decisa verso l’indipendenza.
Ci vorrebbero il filtro della dimenticanza e la droga del sonno per distillare i ricordi di quel matrimonio un tempo felice ma il viaggio del Capitano è senza ritorno e finisce dritto nelle braccia della pazzia.
Con quell’universo di sonnambuli che appare nella meravigliosa scena di velluto rosso di Alessandro Camera (il quadro finale fa venire in menta la colata di sangue di Shining) a far da contrappunto ad un omicidio psichico con vittime e carnefici che si scambiano i ruoli e quei legami che diventano catene da spezzare (Il peggio di me l’ho imparato da te dice il Capitano alla moglie).
Ma i pensieri non mentono mai, a differenza delle persone, e allora forse guardare dentro quel telescopio rivolto verso orizzonti lontani può essere la via per la salvezza. Come una rappresentazione teatrale (Il teatro è la cosa più bella dice in sottofinale Lavia in camicia di forza) capace di riflettere l’essenza di uomini e cose e antidoto alla smania dell’apparenza.
Allucinato e attraversato da lampi di perfida ironia, potente e commovente, simbolico e mitologico (Ercole e Onfale) Il padre diretto e interpretato magistralmente da Lavia mette in scena la certezza dell’essere contro l’incertezza del non essere in un balletto infernale di corpi che si svuotano e di prepotenti macchinazioni. Una lezione di arte e vita.
Dopo le repliche al Quirino di Roma (fino al 4 febbraio) la tournée prosegue a Bologna (Arena del Sole dall’8 all’11 febbraio), Milano (Teatro dell’Elfo dal 15 al 25 febbraio), Torino (Teatro Carignano dal 27 febbraio all’11 marzo), Genova (Teatro della Corte dal 13 al 18 marzo) e Udine (Teatro Nuovo dal 21 al 23 marzo).