La vita quotidiana del reparto di urologia oncologica di un ospedale italiano raccontata in tono surreale e satirico senza pietismi e ricatti emotivi. L’impresa, perché di questo stilisticamente si tratta, riesce a Mattia Torre- sceneggiatore, regista e autore di serie cult come Boris- che trasforma la sua personale esperienza ospedaliera in un universo complesso di varia umanità nel quale ogni personaggio porta in scena il proprio vissuto.
Ed ecco pazienti e infermieri, dottori, caposala e parenti in un bellissimo affresco che riesce, paradossalmente, a infondere energia e speranza più a chi non è malato che a chi lo è.
Serie tv in otto episodi della durata di 25’ in onda su RaiTre a partire dal 13 gennaio (ma su Raiplay sono già disponibili tutte le puntate) La linea verticale segue le vicissitudini di Luigi (un magnifico Valerio Mastandrea), quarantenne con bella moglie (Greta Scarano) e un’altro figlio in arrivo alle prese con l’insorgere di un tumore al rene da operare immediatamente.
Attraverso il suo sguardo dolente e disincantato eccoci catapultati in un mondo, quello ospedaliero, di cui tutti conosciamo le regole ma che, esplorato in profondità, riserva tragicomiche sorprese.
Ed ecco i compagni di stanza (Babak Karimi nei panni di un iraniano dalle convinzioni radicali e Gianfelice Imparato in quelli di un elegante sessantenne alle prese con una recidiva) e gli altri degenti (spicca l’irresistibile Giorgio Tirabassi, un ristoratore che s’interessa con cognizioni di causa al quadro clinico degli altri pazienti), un prete in crisi spirituale (Paolo Calabresi) costretto ad andare sotto i ferri e la severa responsabile del reparto (Alvia Reale) che adora il pop italiano.
E poi la sfilata di tutto il personale del reparto col carismatico primario (Elia Schilton) che appare e scompare come una presenza divina e uno stuolo di medici al seguito che convivono a stento con gerarchie e rapporti di forza.
C’è il chirurgo truce che ricuce con mano ferma e riconduce qualunque sintomo dei suoi pazienti ai vasi (Ninni Bruschetta), c’è il depresso sognatore che declama versi poetici mentre prescrive farmaci (Antonio Catania) e c’è quello spocchioso e teatrale (Federico Pacifici) che fa un rapido dietrofront davanti alle richieste d’aiuto dei ricoverati.
Tra sofferenza e speranze, realismo assoluto e sorprendenti visioni, casi clinici ed umani, la serie tv di Mattia Torre scorre felice in un miracoloso equilibrio di toni ed umori.
Dramedy libero e spregiudicato, La linea verticale- coproduzione Rai Fiction-Wildside- mette in scena umori e dolori senza concessioni e scorciatoie nel nome dell’autenticità. Più che raccontare una vicenda personale desideravo mettere in evidenza il reparto oncologico di un ospedale pubblico di assoluta eccellenza dice il regista e sceneggiatore della serie volevo ribaltare il cliché del primario barone arrogante e scollato dalla realtà e che anzi rappresenta, per gentilezza, generosità e amore verso il proprio mestiere, l’idea di un’altra Italia possibile.
La linea verticale- continua Torre- nasce seguendo due intenti: la dimensione teatrale della storia- la serie è interamente ambientata nel reparto- e la libertà narrativa nella forma del racconto e nel modo di affrontare un tema complesso ma sempre più presente nelle nostre vite. La vita, la morte, la sofferenza, la malattia:il reparto è il nostro palcoscenico e tutto viene sistematizzato in una routine a cui ci si abitua presto e che pure rappresenta una formidabile esperienza umana.
Con la voce off di Mastandrea che accompagna lo spettatore in digressioni sociologiche, racconti di vicende umane, liturgie ospedaliere e paradossi della scienza medica, La linea verticale racconta in definitiva e pure in un contesto tragico e doloroso, la malattia come occasione di crescita, apprendimento e persino riscatto. Perché per una rinascita occorrono volontà e consapevolezza.