Una palpebra che sbatte, un occhio che si apre verso il futuro (o il passato?). Inizia così, 32 anni dopo l’uscita in sala del film culto di Ridley Scott e a 30 anni di distanza dall’ambientazione temporale della prima pellicola, Blade Runner 2049, l’attesissimo sequel firmato Denis Villeneuve già autore di un capolavoro sci-fi come “Arrival”. Nella California del 2049 esistono
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Una palpebra che sbatte, un occhio che si apre verso il futuro (o il passato?). Inizia così, 32 anni dopo l’uscita in sala del film culto di Ridley Scott e a 30 anni di distanza dall’ambientazione temporale della prima pellicola, Blade Runner 2049, l’attesissimo sequel firmato Denis Villeneuve già autore di un capolavoro sci-fi come “Arrival”. Nella California del 2049 esistono ancora pochi Nexus 8 (i replicanti androidi dotati di memoria artificiale) superati tecnologicamente da altre specie che popolano le colonie extramondo fornendo forza lavoro. A plasmarli c’è stavolta un’industria capeggiata da una sorta di Dio pagano (Jared Leto) che deve fronteggiare una rivoluzione sociale e morale.
Si comincia nel giardino di uno strano allevatore di proteine che crede ancora nei miracoli e col ritrovamento da parte dell’Agente K (Ryan Gosling) di un vecchio bauletto militare contenente uno scheletro risalente al 2019. Parte da qui un’affannosa ricerca, più filosofica che spettacolare, nella quale ci si imbatterà in paternità mancate e replicanti incinte, black out informatici e innesti di ricordi, numeri che aprono mondi, sincronizzazioni corporeee e pericolose coincidenze. Visivamente affascinante e dilatato oltre misura (durata 2h35’) Blade Runner 2049 regala sequenze da antologia (l’incontro sessuale, a metà tra reale e virtuale, tra K e due donne; la visita alla creatrice di ricordi che vive solitaria nella camera sterile che si trasforma in mille paesaggi) e dialoghi spirituali immersi nel consueto scenario apocalittico e postmoderno illuminato dalla magnifica fotografia di Roger Deakins.
Ma a fascino visivo e ottimo cast (lode al Tenente Joshi interpretato da un’algida Robin Wright) non corrispondono originalità ed intuizioni originali. Così il film, sceneggiato da Hampton Fancher e Michael Green, riesce ad emozionare davvero soltanto verso la fine, ovvero dall’entrata in scena dell’ex Blade Runner, Harrison Ford. Custode di un segreto che potrebbe gettare nel caos le sorti dell’intera società, Rick Deckard diviene la chiave di volta di un film che cerca il futuro trovando piuttosto il passato.
In una sorta di continuo deja-vu cinematografico e narrativo- coi personaggi che sembrano replicanti di se stessi- Blade runner 2049 va a caccia di frammenti di memorie e sentimenti capaci di riscaldare gli animi finendo per trovare pericolose coincidenze e flash visionari sin troppo prevedibili. “Prima di sapere chi siamo temiamo di esserlo” dice il creatore onnipotente Jared Leto e in fondo il film di Villeneuve sembra avere lo stesso problema. Una sorta di paura inconscia verso l’originale che nel nome del rispetto artistico attenua tensione e voglia di immergersi in nuove situazioni. Perché nascere e creare sono cose assai diverse e allora questo sequel si finisce per ammirare più che amare rimpiangendo la commozione autentica e le ellissi narrative di Arrival.
Nelle sale dal 5 ottobre con distribuzione Warner Bros
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