Un film sulla parola. Un lungo, intenso soliloquio, un viaggio interiore di una giovane donna afgana, costretta a vegliare il marito in coma, che si rivela in tutta la sua forza e bellezza mettendosi a nudo attraverso il racconto della sua vita.
Come pietra paziente – Synguè Sabour è tratto dal romanzo Pietra di pazienza dello scrittore e regista afgano Atiq Rahimi, qui al suo secondo lungometraggio dopo Terre et cendres, ed è sceneggiato dallo stesso Rahimi insieme a Jean-Claude Carrière (Bella di giorno, L’Ussaro sul tetto, Il nastro bianco).
Una storia senza tempo in un paese, l’Afghanistan in guerra da 25 anni e in una città, Kabul, ormai in rovina ma emblematica di un mondo distante da noi anni luce.
In una casa diroccata dalle bombe, una giovane moglie accudisce il marito, eroe di guerra colpito in uno scontro a fuoco ed ormai in coma. I combattenti sono ormai alle porte e sarebbe più prudente scappare ma la donna non riesce ad abbandonare il marito al suo destino. Porta le figlie in salvo dalla zia che gestisce una casa chiusa e torna a casa.
Poco a poco libera la sua parola e inizia a confidare al marito una lunga sequela di verità nascoste e segreti inconfessabili. Un giovane soldato irrompe nella casa e abusa di lei ma è solo una ragazzo totalmente inesperto. Tornerà altre volte e tra i due nascerà un sentimento: la donna si apre all’amore e prende coscienza del suo corpo e della sua sessualità.
C’è ben poco di cinematografica nell’accezione di entertainment in questo film; l’impianto è decisamente teatrale, gran parte della la vicenda si svolge interamente all’interno di un’abitazione con pochissime scene girate in esterno che riprendono le strade di Kabul in rovina ispirate al cinema di Rossellini.
Si respira un senso di claustrofobia mentre il racconto orale della protagonista si srotola via via in un fiume sì liberatorio ma virato su un noioso appiattimento; è l’orecchio dello spettatore più che il suo occhio ad essere stimolato da questo tourbillon di ricordi, di verità nascoste e di sconcertanti rivelazioni.
La valenza del film è principalmente nel coraggio del regista di riuscire a mostrare attraverso questa drammatica vicenda la straziante situazione delle donne di religione islamica tutt’ora vittime di una cultura maschilista, repressiva e oscurantista. Donne prive di diritti e tutele, oppresse ovunque a livello sessuale, religioso, politico, sociale e che nell’Afghanistan del talebani vagano come fantasmi, nascoste dietro un pesante burqa che ne cancella l’esistenza e l’identità.
E se la questione della sessualità femminile è l’aspetto determinante del film, non è un caso se la protagonista prende coscienza della sua libertà e del suo corpo come fonte di piacere, grazie al contatto con la zia che è una prostituta e diventa la sua maestra spirituale.
Il film si regge tutto sulla sublime interpretazione di Golshifteh Farahani, bellissima attrice iraniana, già vista in About Elly, Pollo alle prugne, Just like woman. Nella stanza chiusa che rappresenta la sua interiorità parla, prega, ride, piange con un’intensità e una immedesimazione straordinarie. Nella sua interpretazione la Farahani riesce a evidenziare anche tutte le contraddizioni del personaggio: “Io per te ero un pezzo di carne!” urla contro l’uomo in preda alla rabbia e poi dolcemente esclama “Non ti ho mai baciato e ora posso fare qualsiasi cosa”.
E il marito, un mostro di ferocia e di insensibilità, lì davanti a lei privo di conoscenza, inerme diventa la sua synguè sabour, la sua pietra paziente quella a cui confidiamo tutti i nostri segreti, disgrazie e sofferenze finchè non va in frantumi.
Nelle sale dal 28 marzo distribuito da Parthenos
NOTE: Il film è stato realizzato in lingua afgana, in farsi.