Invece di un attore e di una attrice, un regista esordiente. Invece di pescare nel concorso alla Mostra di Venezia, un balzo fuori sulla competizione parallela di Orizzonti. Il Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici quest’anno, assegnando l’abituale Premio Francesco Pasinetti, ha cambiato le regole. Lo ha fatto per Fausto Paravidino (Foto 1) e per il suo Texas che, come dice Laura Delle Colli, “ci sembrava un esordio davvero felice, un esordio da incoraggiare ad ogni costo e tale da spingerci a scompaginare le abitudini del premio”.
E così è stato ieri sera, mentre in uno dei più belli alberghi della capitale al giovane Paravidino (persino più calmo del solito) veniva consegnato il premio, Claudio Trionfera per Medusa annunciava l’uscita “di questo film che è una delle vere sorprese della stagione” per il prossimo week-end in 50 copie.
Lui, il talentuoso Fausto da Genova, ringrazia e racconta di nuovo ciò che il suo film stringe. La depressione della provincia e l’esuberanza della partenza. Partenza nel senso di esordio: sul grande schermo ma restando sempre a casa. Lui, già attore su set e palcoscenici, debutta usando la sua provincia natale “non più rurale ma non ancora urbana” come un’arma contundente, caricando con tutta l’energia che possiede (e che è tanta) e puntando su uno spettatore giovane ma non solo che, però, per apprezzare questo film, interessante ma sovraccarico di ingenuità, deve accettare di lasciarsi trascinare, almeno all’inizio, tra i frammenti grotteschi e le immagini spezzate di un universo macerato che solo strada facendo prende corpo e direzioni, disperdendosi qua e là, oscillando, preoccupandosi appena un po’ troppo di stupire e stordire chi guarda.
Nel suo Texas, infatti, c’è un intero ventaglio generazionale ma il cuore batte sulla giovinezza sperduta. E c’è ogni conquista, il disagio e il riscatto, tutto in questa storia che comincia con una rissa tanto insensata quanto fondamentale tra un pugno di amici per caso che, forse, si sono tanto amati molto tempo fa o forse solo si sono trovati insieme nei soliti spazi obbligati e insieme restano perché non sanno dove andare né con chi.
Così rimangono insieme facendosi a pezzi. C’è chi ama, chi tradisce, chi tormenta, chi violenta, chi abbandona, chi si muove a vuoto mentre tutti consumano il tempo libero tra sbronze e insulse festicciole, karaoke e squallidi locali sperduti nella bruma.
Si agita in questa provincia profonda e melmosa Valeria Golino, troppo spregiudicata, troppo inquieta, troppo sola, maestrina frustrata, sposata con un marito che ormai la annoia e basta, che cerca senza saperlo finché non trova ciò che può distrarla, rapirla, farle battere di nuovo il cuore, un ragazzo più giovane e belloccio (che ha il volto di Riccardo Scamarcio - Foto 3 con la Golino) con cui intreccia una liaison bruciata tra anfratti e sedili di automobili. Ma la provincia non perdona comunque. Incombe come la cattiva coscienza. E come la buona.
Perché chiamarla Texas? Paravidino lo dice così, piuttosto esaurientemente:“Perché il basso Piemonte in cui è ambientato rappresenta un po’ tutta la periferia dell’impero, un paesaggio umano e morale che si può trovare in tutta l’ex campagna e che oggi è letteralmente, per ragioni di monopolio culturale, lontana provincia di New York. Detto senza polemica perché dalla caduta dell’Unione Sovietica c’è un solo sistema culturale, tutti noi riconosciamo come capitale New York e, per questo, ci ha toccato tanto l’11 settembre. Lo Tsumani, a parità di cadaveri, ci ha toccato meno, non a caso. Allora la nostra provincia si chiama Texas perché vorremmo essere periferia ma non allargata, periferia prossima dell’impero”.
Periferia in cui si intrecciano le fila di una tragedia che si sfiora soltanto. Di una tragedia e di una passione. La stessa di ogni parte del film: la passione e l’esuberanza che, qui, quando non c’è, è solo perché qualcuno la cerca disperatamente e non la trova.