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lunedì 10 ottobre 2005
di Silvia Di Paola
Manet in Mostra al Vittoriano
La prima rassegna italiana dedicata al grande artista francese rimarrà aperta fino al 5 febbraio ‘06

Emile Zola disse una volta di lui: “Sono talmente certo che Manet sarà uno dei maestri di domani che, se avessi un patrimonio, penserei di concludere un buon affare comprando oggi tutte le sue tele”. Charles Baudelaire, che gli fu amico sino alla morte, ripeté in tante occasioni che lo amava per quel suo saper miscelare nell’opera la contingenza della modernità, la fugacità del presente e l’eterno, come solo i veri artisti sanno fare. E Degas, suo rivale per una vita, sostenendo i cordoni del suo feretro con tutti gli altri vecchi amici di Montmartre, commentò: “Era più grande di quanto noi pensassimo” . E non era una frase dettata dalla circostanza, nessuno gliela aveva chiesta ma qualcuno, colpito, la annotò.

Eppure a Edouard Manet (1832-1883) non interessava troppo piacere agli uomini, ai suoi colleghi artisti, ai collezionisti, agli intellettuali: a lui interessava piacere alle donne e, in ultimo, alle giurie del Salon che solo poteva dargli quel successo confezionato dall’ufficialità cui lui, rivoluzionario ma dalla formazione fortemente accademica, certo che il vero rinnovameno poteva avvenire dall’interno, dal cuore stesso della tradizione, aspirava da sempre.
E questo era tutto. Che non era poco perché il gioco della seduzione, al quale tentò di smettere di giocare il più tardi possibile, era comunque un gioco davvero impegnativo. Ed era ciò che gli dava la sensazione della vita che scorreva calda e della carne verso cui naturalmente confluiva, la carne che lui rese sempre palpitante, imponente, nelle sue figure di donne e nei nudi, con la mano tesa del grande artista e l’occhio leggero dell’uomo di mondo.
 
Nel vedere le donne, nel guardarle, nel toccarle e nel dipingerle era la sua vera passione. Il vero piacere di un uomo cui non importava piacere e che nulla fece per piacere all’universo mondo maschile che gli gravitava intorno. A lui bastava piacere alle donne. Alle donne come aveva cominciato ad amare nei primi viaggi di studio nelle capitali europee, a un passo dai Tiziano, dai Rubens, dai Goya. Alle donne che una certa arte spagnola ricreava vibranti e carnose, sospese tra le ombre e i colori che brillano accecanti. Ma anche alle donne reali, quelle che lui amava guardare spogliandole di ogni velo mitologico e di ogni aura di mistero: le donne come Olympia che sembrano figlie delle Veneri del passato ma non sono più dee, spesso semmai prostitute, a volte cameriere con tutta la malinconia della vita nella fessura degli occhi.
 
Comunque le donne erano la figura della sua arte. Anche quando sulla tela non c’erano. E solo nelle sue nature morte, nei fiori che mai sbocceranno, nei frutti che stanno per marcire, solo qui le donne non ci sono perché non c’è la leggerezza avida e voluttuosa dell’uomo che ama. C’è tutto il resto, l’asprezza, la distanza, persino l’introversione dell’uomo gelosissimo della sua indipendenza e della sua carriera e dell’artista difficile che, dopo aver partorito le basi teoriche dell’impressionismo si rifiutò di partecipare alle otto mostre impressioniste che gli altri suoi colleghi animarono tra il 1874 e il 1886 e volle esporre sempre e solo al Salon, che per lui era il vero campo di battaglia. Che era, poi, il suo modo di rivoluzionare ma restando negli argini istituzionali: dentro e mai fuori, planando sulla scia di un sottile, esile ma duraturo, equilibrio.
Era il suo modo di piacere e non piacere: ciò che lo rese il primo degli impressionisti e il più lontano.
 
Manet è importante per noi quanto Cimabue e Giotto per gli italiani del Quattrocento poiché il Rinascimento è con lui che si prepara” dirà Auguste Renoir dell’uomo che mai partecipò alle loro esposizioni collettive ma Manet, appunto, preferiva le donne alle dispute estetiche e l’esercizio del suo fascino era per loro. Nonostante ciò, era corposa la frotta dei tanti che aspettavano il tardo pomeriggio per comparire nel suo studio. E lo fu sino alla fine, quando uomini che lo conobbero tardi, come George Moore, Jacques-Emile Blanche, Georges Jeanniot, attraverso i loro racconti ci fanno percepire il fascino che ancora Manet riusciva ad esercitare: ancora, a un passo dalla morte, stanco ma pronto a mascherarsi, tentando di nascondere la lacerante fatica che ormai gli costava persino la tela.
Del resto, come diceva Camus, il fascino è sentirsi rispondere senza aver fatto chiaramente nessuna domanda. E a Manet proprio questo capitò. Lo sapeva? Lo sentiva? E sino a che punto? Sino a che punto quando, alla fine della vita, mandando lettere acquarellate ad amici e signore, perché moriva di solitudine e avrebbe voluto un piccolo mondo intero intorno a sé, accanto alle parole disegnava. Un fiore, un cappellino, un frutto, un animaletto, qualcosa senza importanza che lui caricava di peso e valenza nel momento in cui decideva che cosa e per chi.

Queste lettere sono tra i fascinosi oggetti che, insieme alle opere, vedremo in mostra al Vittoriano, sino al 5 febbraio dell’anno prossimo, per una retrospettiva fondamentale. Per la prima volta in Italia, infatti, vengono offerte allo sguardo più di centocinquanta opere tra oli, disegni, fotografie, lettere, incisioni, testimonianza dell’intero percorso di un artista che di opere non ne firmò più di 400, tra l’altro tutte gelosamente custodite in collezioni private o musei pubblici. Insomma, non proprio a portata di sguardo. Dunque l’occasione è imperdibile. Per delle opere che sono arrivate dal Brasile e da Budapest, da Parigi e da New York, da Philadelphia e da Ottawa e che testimoniano davvero l’intero percorso, compattamente, senza lacune, tutto incluso: il dandy parigino e l’individualista; l’amante delle donne e l’artista, autorevole anche quando respingeva; il disegnatore di marine ma mai genericamente di paesaggi e il rivoluzionario che credeva nel potenziale valore estetico di tutte le cose, infischiandosene delle gerarchie dei generi; l’artista che dalla lezione dei grandi maestri del passato non voleva allontanarsi poi tanto e il creatore di frutti aspri che avrebbe voluto essere il “San Francesco della natura morta”.
Alla fine quel Manet di cui non si smette di chiedersi se fu l’ultimo dei classici o il primo dei rivoluzionari.

L’esposizione è stata promossa dal Comune di Roma, dalla Provincia, dalla Regione Lazio ed e stata organizzata da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia. Curatrice Maria Teresa Benedetti, coadiuvata da un Comitato scientifico composto Renato Barilli, Ann Dumas, Diane Kelder e Claudio Strinati.

Dal 7 ottobre 2005 al 5 febbraio 2006
Complesso del Vittoriano
Via San Pietro in Carcere
Tel. 06.6780664
Orario: lun-gio 9:30-19:30, ven-sab 9:30-23:30, dom 9:30-20:30

(Foto 1, Ninfa svelata - Foto 2, Donna con cappello - Foto 3, Veduta marina - Foto 4, Le déjeuner sur l’herbe - Foto 5, Le rondini - Foto 6, Chitarra e capello.)

 
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